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giovedì 20 dicembre 2012

Paganesimo



Il termine “Paganesimo” deriva dalla parola latina “pagus”, che ha il significato di “villaggio, borgo”: tale termine fu introdotto dalle istituzioni ecclesiastiche per connotare quell’insieme di credenze, miti, tradizioni, usi e costumi che ancora resistevano, soprattutto all’interno delle campagne e dei villaggi(“pagi”), nel periodo in cui il Cristianesimo si stava diffondendo in modo esponenziale in tutta Europa, in particolare nelle grandi città
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 Per capire cosa si intende quando parliamo di “Paganesimo”, è necessario fare prima una premessa su cosa non esprime questo termine. Il Paganesimo, infatti, non è una religione, come la intendiamo comunemente, né una dottrina di pensiero: non vi sono, infatti, dogmi e insegnamenti da seguire, scritti in testi sacri, non è universalista, onnicomprensivo, non ricerca adepti, e, quindi, non spinge coloro che lo abbracciano a diffonderlo, convertendo altri uomini: insomma, non è una religione come lo sono il Cristianesimo, l’Islam o l’Ebraismo e tutte quelle che hanno le caratteristiche sopra descritte. Il Paganesimo lo si può definire una visione del mondo, o meglio delle cose, un modo di pensare e di intendere gli accadimenti, sia quelli propri, sia quelli degli altri uomini e degli altri esseri, viventi e non, sia quelli cosmici. Esso valorizza l’uomo, ma non ponendolo al centro di tutto, come fanno le religioni monoteiste, o meglio i suoi apparati di potere temporali, e molte concezioni filosofiche, politiche e culturali in genere, bensì considerandolo per quello che è, cioè parte di un Tutto, in cui ha un ruolo e un’importanza, che deve comprendere lui stesso. In un certo modo lo si può intendere anche come una filosofia, che dà all’ uomo alcuni strumenti per rapportarsi con ciò che lo circonda, sia sul piano fisico che su quello metafisico. Il Paganesimo è anche religione, nel senso che vi sono entità in cui si può credere e che offrono chiavi per spiegare i fenomeni che l’uomo non comprende tramite i suoi strumenti logici e razionali; ma va oltre questo, è una sensibilità innata nell’interiorità di coloro che, appunto, lo percepiscono e lo colgono in un modo che è, dapprima, quasi puramente istintivo, e che, poi, via via, si arricchisce anche dei livelli razionali e mentali. Esso poggia su quelli che sono gli elementi primari della vita: il sangue e la terra; hanno, dunque, grande importanza la stirpe e le tradizioni, nei vari aspetti che vi sono correlati; questo gli impedisce di avere un carattere universalista, anche se vi sono filosofie e visioni del mondo che possono avere con esso punti di contatto, e, dunque, la sua più intima essenza rifugge da quei calderoni di pensiero modernisti, come le filosofie New Age, anche se la sua ripresa in questi contesti dimostra, in un certo modo, che esso, oltre ad essere aperto ai contributi delle più svariate filosofie, religioni e correnti di pensiero in genere, che esso accoglie filtrandoli con la propria sensibilità, è idoneo a recare esso stesso contributi ed apporti per l’altro da sè; da questo emerge il fatto che si tratta di un modo di vedere le cose, di una forma mentale che conduce ad un confronto continuo, sia con sé stessi, che con ciò che ci attornia, in tutte le sue manifestazioni; è un qualcosa che non è ancorato al passato, ma che è cosmico, olistico, e che, quindi, ha certamente validità attuale, perché senza tempo, anche se, come vedremo, accoglie un eternità fatta di cicli, che sono quelli della vita, della natura e di tutto l’essere in generale. Nel mondo attuale il Paganesimo all’apparenza sembra scomparso, dato che vi domina tutto ciò che ben sappiamo e vediamo ogni giorno; ma, se andiamo a vedere, esso, in realtà è più presente che mai, proprio perché ha come basi il sangue e le tradizioni e perché crea un tipo di mentalità “aperta” all’”altro”: il problema è che gli uomini non lo sanno e, spesso, non lo vogliono riconoscere e, d’altra parte, le dinamiche moderne creano una forte spinta in questa direzione: la sua “riscoperta” è fondamentale per ridare all’individuo, a cui sempre più riesce difficile rapportarsi con sé stesso e con ciò che è intorno a lui, un equilibrio e un’armonia spirituale che gli dia la possibilità di capire la realtà in cui vive, e, soprattutto, la propria interiorità, il cui confronto con essa, piena di quelle che, all’apparenza, sembrano contraddizioni e incompatibiltà insanabili del proprio essere, è spesso fonte di infelicità, dolore e disperazione. Esso, per il tramite del proprio sangue, della propria stirpe, dei propri Antenati e delle proprie tradizioni, offre la possibilità ad alcuni uomini di “utilizzare” certi strumenti e mezzi, ma le forme e i modi di “utilizzo” dipenderanno dal modo di essere e dalla sensibilità del singolo, per il quale vi è la difficoltà di filtrarlo in modo libero e autonomo, senza ottusità, senza che vi siano linee di comportamento e di condotta, convincimenti e ideali da seguire in modo preciso e specifico.

Scilla




SCILLA

Scilla è un mostro marino, figura della mitologia greca. Secondo la versione più comune, Scilla è figlia del dio marino Forco (o Forcide) e di Ceto. Secondo la tradizione riportata dall’Odissea, invece, è figlia di una dea, chiamata Crateide.

Altre leggende la dicono nata da Forbate e da Ecate, oppure da quest’ultima e Forco. La si considerava anche figlia di Tifone ed Echidna, oppure di Zeus e di Lamia; in questo caso, fu l’unica figlia ad essere risparmiata dalle ire della gelosa Era.

All’inizio Scilla era una ninfa, figlia di Forco e Ceto. Scilla viveva in Sicilia (secondo alcune versioni nel sud della Calabria) ed era solita recarsi sulla spiaggia di Zancle e fare il bagno nell’acqua del mare. Una sera, vicino alla spiaggia, vide apparire dalle onde Glauco, figlio di Poseidone, che un tempo era stato un mortale, ma oramai era un dio marino metà uomo e metà pesce.

Scilla, terrorizzata alla sua vista, si rifugiò sulla vetta di un monte che sorgeva vicino alla spiaggia. Il dio, vista la reazione della ninfa, iniziò ad urlarle il suo amore, ma Scilla fuggì lasciandolo solo nel suo dolore.
Allora Glauco si recò all’isola di Eea dalla maga Circe e le chiese un filtro d’amore per far innamorare la ninfa di lui, ma Circe, desiderando il dio per sé, gli propose di unirsi a lei.
Glauco si rifiutò di tradire il suo amore per Scilla e Circe, furiosa per essere stata respinta al posto di una mortale, volle vendicarsi.

Quando Glauco se ne fu andato, preparò una pozione malefica e si recò presso la spiaggia di Zancle, versò il filtro in mare e ritornò alla sua dimora.
Quando Scilla arrivò e si immerse in acqua per fare un bagno, vide crescere intorno a sé delle mostruose teste di cani.
Spaventata fuggì dall’acqua ma si accorse che i cani erano attaccati alle sue gambe con un collo serpentino. Si rese conto allora che sino al bacino era ancora una ninfa ma al posto delle gambe spuntavano sei musi feroci di cane.
Per l’orrore Scilla si gettò in mare e andò a vivere nella cavità di uno scoglio vicino alla grotta dove abitava anche Cariddi.

Pegaso




PEGASO
Pegaso è una figura della mitologia greca. È il più famoso dei cavalli alati. Secondo il mito, nacque dal terreno bagnato dal sangue versato quando Perseo tagliò il collo della Medusa. Secondo un'altra versione, Pegaso sarebbe balzato direttamente fuori dal collo tagliato della Medusa, insieme a Crisaore.

Animale selvaggio e libero, Pegaso viene inizialmente utilizzato da Zeus per trasportare le folgori fino all'Olimpo. Grazie alle briglie avute in dono da Atena, viene successivamente addomesticato da Bellerofonte, che se ne serve come cavalcatura per uccidere la Chimera. Dopo la morte dell'eroe, avvenuta per essere caduto da Pegaso, il cavallo alato ritorna tra gli dei.

Nella famosa gara di canto tra le Muse e le Pieridi, Pegaso aveva colpito con uno zoccolo il monte Elicona, che si era ingigantito fino a minacciare il cielo dopo aver udito il celestiale canto delle dee. Dal punto colpito dallo zoccolo di Pegaso nacque una sorgente, chiamata Ippocrene, o "sorgente del cavallo". Nello stesso modo, Pegaso fece scaturire una sorgente a Trezene.

Terminate le sue imprese, Pegaso prende il volo verso la parte più alta del cielo e si trasforma in una nube di stelle scintillanti che hanno formato una costellazione.

Con il nome di Pegaso sono definite numerose figure mitologiche minori, tutte deformazioni del Pegaso greco. Nella letteratura latina, Plinio descrive come Pegasi degli uccelli dell'Etiopia con teste di cavallo. Sempre Plinio descrive sotto lo stesso nome un cavallo dotato di ali e corna. Per Giulio Solino e Pomponio Mela sarebbe invece un uccello con orecchie di cavallo. In generale, ogni figura, mitologica o araldica, corrispondente ad un cavallo alato viene chiamata Pegaso.

mercoledì 19 dicembre 2012

Uroboro




UROBORO
L'Uroboro (dal greco 
ουροβóρος dove 'ourá' sta per 'coda') detto anche: Ouroboros, Ourorboros, Oroborus, Uroboros o Uroborus è un simbolo molto antico che rappresenta un serpente che si morde la coda, ricreandosi continuamente e formando così un cerchio. È un simbolo associato all'alchimia, allo gnosticismo e all'ermetismo. Rappresenta la natura ciclica delle cose, la teoria dell'eterno ritorno, e tutto quello che è rappresentabile attraverso un ciclo che ricomincia dall'inizio dopo aver raggiunto la propria fine. In alcune rappresentazioni il serpente è raffigurato mezzo bianco e mezzo nero, richiamando il simbolo dello Yin e Yang, che illustra la natura dualistica di tutte le cose e soprattutto che gli opposti non sono in conflitto tra loro.

Egitto
In Hieroglyphica di Orapollo nella traduzione in volgare di M. Pietro Vasolli da Fiuizano, riferendosi all'equivalente geroglifico egiziano si trova questa mirabile descrizione:

Quando vogliono scrivere il Mondo, pingono un Serpente che divora la sua coda, figurato di varie squame, per le quali figurano le Stelle del Mondo. Certamente questo animale è molto grave per la grandezza, si come la terra, è anchora sdruccioloso, perilche è simile all’acqua: e muta ogn’ anno insieme con la vecchiezza la pelle. Per la qual cosa il tempo faccendo ogn’ anno mutamento nel mondo, diviene giovane. Ma perché adopra il suo corpo per il cibo, questo significa tutte le cose, le quali per divina providenza son generate nel Mondo, dovere ritornare in quel medesimo.

Pare che il simbolo si ispiri alla forma della Via Lattea, dal momento che in alcuni antichi testi era considerata un enorme serpente di luce che risiedeva nel cielo e circondava tutta la Terra.

Yurei




YUREI
Gli y
ūrei sono i fantasmi della tradizione giapponese. Il nome è composto dai kanji yū ("flebile", "evanescente", ma anche "oscuro") e rei ("anima" o "spirito"). Sono talvolta chiamati anche bōrei ("spiriti dei caduti"), shiryō ("spiriti dei morti"), o anche con i più generici nomi di yōkai e obake.
Come per le controparti occidentali, si tratta di anime dei defunti che sono incapaci di lasciare il mondo dei vivi e raggiungere in pace l'aldilà.

All'inizio, la tradizione non attribuiva agli y
ūrei un aspetto differente da quello dei comuni esseri umani.

Nel tardo XVII secolo, durante il periodo Edo, si diffuse il gioco del Hyakumonogatari Kaidankai, molto popolare ancora oggi, che consiste nel raccontare a turno una storia dell'orrore (kaidan, termine non più in voga, sostituito nel giapponese moderno dall'inglese horror) e poi spegnere una luce; si credeva che quando l'ultima luce si fosse spenta uno y
ūrei si sarebbe manifestato. I kaidan divennero oggetto di letteratura, opere teatrali e dipinti, e gli yūrei cominciarono ad assumere degli attributi che permettevano al pubblico di identificarli immediatamente tra i personaggi.

Il primo esempio dell'aspetto ormai canonico di uno y
ūrei è Il fantasma di Oyuki, un ukiyo-e di Maruyama Ōkyo.

* Veste bianca - Simile al folkloristico lenzuolo bianco dell'immaginario collettivo occidentale, gli y
ūrei sono vestiti di un ampio abito bianco, che ricorda il kimono funerario in uso durante il periodo Edo; il kimono può essere un katabira (una semplice veste bianca) o un kyokatabira (simile al precedente ma decorato di sutra buddhisti).
* Hitaikakushi - Un altro elemento di vestiario che li contraddistingue, ma soprattutto in alcune opere teatrali o di carattere comico, e reso popolare principalmente da anime e manga; è un fazzoletto avvolto intorno alla testa che assume una forma triangolare (con la punta rivolta verso l'alto) sulla fronte.
* Capelli lunghi e neri - Gli y
ūrei hanno generalmente i capelli lunghi, neri e scompigliati. Si credeva che i capelli continuassero a crescere dopo la morte, e inoltre tutti gli attori nel kabuki indossavano parrucche.
* Mani morte e mancanza della parte inferiore del corpo - Le mani dello y
ūrei penzolano senza vita dai polsi, che sono generalmente portate in avanti con il gomito all'altezza dei fianchi. La parte inferiore del corpo è del tutto assente, e lo yūrei fluttua nell'aria. Queste caratteristiche comparvero dapprima negli ukiyo-e del periodo Edo, e vennero poi fatte proprie dal kabuki, nel quale per nascondere la parte inferiore del corpo si usava un kimono molto lungo o si sollevava l'attore da terra con delle corde.
* Hitodama - Gli y
ūrei sono spesso accompagnati da una coppia di fuochi fatui (hitodama) in sfumature tetre di blu, verde o viola; queste fiammelle sono considerate parte integrante dello spirito. Le hitodama sono entrate a far parte anche della simbologia di anime e manga, in cui oltre a seguire un fantasma compaiono intorno a persone dall'aria funebre o stati emotivi fortemente depressi.


Abaddon



ABADDON

Abaddon è un essere spirituale citato nell'Apocalisse ed in altre scritture sacre appartenenti alla cultura ebraica e cristiana.

Il suo nome deriva dall'ebraico, e significa perdizione. È la trascrizione di una parola ebraica utilizzata come nome proprio per indicare il nome dell'Angelo dell'Abisso nell'Apocalisse di Giovanni (cap. 9, versetto 11 e cap. 20, versetto 1) simmetrico all'Angelo dell'Abisso in Giobbe (cap 33, versetti 23 e 24). Il nome ebraico Abbadon corrisponde al nome greco Apollyon (il distruttore), che può essere paragonato anche al dio Apollo. Poiché in Giobbe la sua figura è associata a quella dell'Angelo Alef, ovvero l'Arcangelo di Giosuè (cap 5, versetti 14 e 15) e di Giuda (cap 9), si può dedurre che si tratti dello stesso Arcangelo Michele.

Per alcuni è il Capo dei demoni della settima gerarchia, Abaddon è il sovrano del pozzo senza fondo (Giuda Taddeo, VI) e il re di un esercito di cavallette dell'Apocalisse.

"Abaddon, tuttavia, non è un angelo di Satana ma di Dio, che compie la sua opera di distruzione per ordine di Dio". — The Interpreter’s Bible, a cura di G. A. Buttrick, 1957, vol. XII, p.



Spirito wiccan



E' nostro dovere riportare equilibrio e armonia dove vi è sopruso e prepotenza. Che la Natura si riprenda ciò che Le appartiene.